Don Donato Perron, prete alpinista, per lunghi anni insegnante e parroco nella periferia romana, racconta la sua vita straordinaria. L'infanzia povera in un villaggio vicino a Valtournenche e la sua vocazione; l'incontro folgorante con gli studenti della Gs di don Giussani e la sua prima discesa controvoglia a Roma; le scalate in vetta al Bianco e al Cervino e la "caritativa" tra i baraccati dell'acquedotto Alessandrino; la passione per la montagna e l'amore sbocciato per la città eterna dove vive felice il suo apostolato da oltre mezzo secolo.
Don Donato, sei nato ai piedi del Cervino, in Val d’Aosta, durante la Seconda guerra mondiale, nel 1942. Raccontaci della tua famiglia e della tua infanzia.
Sono nato in un piccolo villaggio, La Servaz, quattro case nel bosco a due passi da Valtournenche, sulla strada per Cervinia. C’era la guerra e una grande povertà. Nella nostra casa non avevamo l’acqua corrente, la mamma doveva andare a prendere l’acqua in una fontana che non era molto vicina e gli inverni, allora, non erano come adesso, faceva tanta neve.
E a casa ovviamente non c’era il riscaldamento…
Ci scaldava il fiato delle mucche! La casa era composta da un unico locale: l’angolo delle mucche, un piccolo separé e la culla dove stavamo noi bambini. Io fui il primo di quattro fratelli, tre maschi e una femminuccia. Mamma però ha avuto cinque altre gravidanze, tutti sono morti in tenerissima età. Questa è La Servaz in una foto degli anni 50.
Degli anni della guerra ti affiora qualche ricordo?
Ero troppo piccolo, ma ricordo una cosa. Il clima di paura. Mamma spesso era sola a casa ed era terrorizzata dal passaggio dei combattenti, sia tedeschi sia partigiani. C’era un nascondiglio a casa dove ripararsi. Una botola al centro della sala portava ad uno spazio dove si tenevano le patate. Ci si rifugiava là sotto.
Un altro ricordo di quando ero piccolino è il pane duro, era conservato su delle rastrelliere, durava settimane, veniva sciolto con il latte. Si mangiava polenta, patate o i formaggi. Verdure quasi mai, carne ancora più raramente.
I tuoi che lavori facevano?
Mia madre accudiva gli animali - le mucche e le galline - oltre ad occuparsi delle faccende domestiche e naturalmente dei bambini. Mio padre era operaio della SiP, Società idroelettrica del Piemonte, stava spesso in giro, lontano da casa, a controllare tralicci e dighe. Infatti, quando avevo sei anni gli fu dato l’incarico di guardiano della diga sul lago di Maen, vicino al villaggio di Ussin, e ci trasferimmo nella casa predisposta per i guardiani accanto alla diga. Un posto ancor più isolato de La Servaz.
Come facevi a raggiungere la scuola?
Era impossibile essere accompagnato tutti i giorni, non avevamo l’automobile, non c’erano mezzi pubblici. Per poter frequentare la scuola (negli anni delle elementari) entrai in un collegio ad Antey-Saint-Andrè, un paese circa 6 chilometri a valle dalla diga.
La tua infanzia è stata segnata da una grave malattia.
La poliomielite. Mi ammalai che avevo un anno, nel 1943. Il medico disse ai miei genitori che non era in grado di curarmi, rischiavo la vita, dovevo essere trasportato in ospedale a Torino. Mio padre mi infilò nel suo zaino e inforcò la bicicletta: venti chilometri fra quei tornanti non asfaltati, fino a Chatillon. Lì ci aspettava mio zio, don Cirillo Perron, parroco di Courmayeur, fratello di mio padre; si prese cura di me e mi portò in treno fino a Torino. Rimasi in ospedale tanto tempo, quasi un anno. Un’amica di mia madre, che si era trasferita a Torino, veniva a trovarmi in ospedale. Ero piccino, finii per chiamare lei “mamma”; per i mei era difficile spostarsi fino a Torino, le distanze allora sembravano incolmabili e la guerra, con i bombardamenti aerei, rendeva ancora più complicato muoversi.
Sei guarito. Tuo padre lo considerò un miracolo.
Come ex voto, per la mia guarigione, volle costruire con le sue mani una piccola cappella, fu edificata nel 1949, accanto alla nostra casa a La Servaz. Dedicata alla Madonna del Rosario, vi ho celebrato messa anche la scorsa estate.
Guarito sì, ma nessuno poteva immaginare che quel bambino claudicante per colpa della poliomielite un giorno sarebbe diventato uno scalatore esperto, in grado di arrampicarsi fino alla vetta del Cervino…
Un piede era rimasto un po’ deformato. Quando ebbi 18 anni un professore bravissimo mi operò a Torino. “Ora potrai camminare meglio, mi disse, ma scordati le escursioni in montagna”. Tutta la mia vita successiva smentì quella previsione.
Ci torneremo più avanti su questa tua grande passione per la montagna. Ora riprendiamo il filo del nostro racconto. Come è nata la tua vocazione al sacerdozio?
Ero un destinato. Tutta la mia infanzia è stata accompagnata da figure di religiosi e religiose. A Valtournenche sia il rettore sia il parroco erano sacerdoti autorevoli, aiutavano tanto la gente. Nella mia famiglia poi avevo due zii preti, fratelli di mio padre: don Cirillo che nella benestante Courmayeur veniva a contatto con un turismo ricco e don Gino, alle cui cure pastorali erano affidati gli abitanti di una serie di piccoli villaggi un po’ sperduti: di inverno, li raggiungeva con gli sci. Entrambi belle figure di sacerdoti. Per me fu naturale seguire la loro stessa via. Entrai in seminario all’inizio del ciclo delle scuole medie, avevo 12 anni. Per pagarmi la retta, d’estate andavo in un alpeggio sopra Courmayeur e tenevo a bada le mucche di un parente, con l’aiuto di un cane. Era una vita severa, la sera andavo a letto presto, la mattina mi alzavo con le prime luci del giorno, ma mi metteva in contatto con la natura. E mi permetteva di guadagnare qualche soldino. A tutto il resto provvedeva Don Cirillo. Questa curiosa foto, con la pipa, fu scattata negli ultimi anni del seminario.
A proposito di don Cirillo Perron. Pochi anni fa tuo zio è balzato agli onori della cronaca: si è appreso che al tempo della guerra salvò un bambino ebreo dai lager nazisti; lo fece passare come un suo nipote, fornendogli una nuova identità e ospitandolo nella sua canonica. Rischiò la vita per salvare quella del bambino. Ti raccontò mai questa storia?
No, lo venni a sapere solo dopo la sua morte. Lui non amava farsi bello raccontando le storie delle persone che aveva aiutato, erano cose che per lui rientravano nei suoi doveri pastorali. Appresi la storia del bambino ebreo, Giulio Segre, quando questi pubblicò il libro “Don Cirillo e il nipotino”. Il tg regionale della Valle d’Aosta trasmise un servizio, intervistando Segre, ormai anziano e malato. Mi misi in contatto con lui. Era il 2013, andai a Saluzzo, dove abitava Giulio, in compagnia del mio amico don Maurizio Ventura: appena mi vide fu colpito dalla somiglianza con don Cirillo e gli vennero le lacrime agli occhi. Ci siamo commossi tutti e due, abbracciandoci. I due “nipotini” di don Cirillo. Siamo diventati grandi amici.
Fu nella parrocchia di tuo zio, negli anni del seminario, che conoscesti i giovani di Gioventù studentesca...
Fu un incontro decisivo per la mia vocazione. Alla fine del liceo, era arrivato il momento di scegliere se farmi prete o abbandonare il seminario. Ero preso dal dubbio. Fino a quel momento, da ragazzo, tutto era stato quasi naturale. In seminario non mi trovavo male, negli studi riuscivo bene; i miei educatori avevano valorizzato la passione per la musica, ero stato nominato insegnante di musica per i miei compagni, dirigevo un coro polifonico. Però mancava qualcosa. Stavo meditando seriamente di lasciare, e pensavo a cosa avrei potuto fare; le ipotesi erano due: o maestro di sci e guida alpina oppure approfondire la via della musica. Ero immerso in questi pensieri quando incontrai i giovani di Gs. Venivano in vacanza a Courmayeur, d’estate, con le loro famiglie; erano stati folgorati a scuola da don Giussani, ne parlavano come di una figura mitica. Veniva loro spontaneo, per l’educazione ricevuta da Giussani, di ritrovarsi anche durante le vacanze per la recita delle lodi e per i “raggi estivi”: a tutti i partecipanti veniva data, in anticipo, una traccia di riflessione (un brano del Vangelo, di un pensatore cristiano o della letteratura) e ognuno nella riunione era chiamato a confrontare la propria esperienza della vita alla luce di quella traccia. Erano ragazzi normali, ma vivaci, solari, con mille interessi. Si ponevano domande su tutto, anche sull’attualità. Mi raccontavano quello che facevano nelle scuole, ed aveva dell’incredibile. La mia vita incontrandoli ebbe un sobbalzo. Per un’umanità così valeva la pena essere cristiani e anche diventare prete!
Ricordi i loro nomi?
In particolare ricordo Giorgio Feliciani, Peppino Zola e Adriana Mascagni che aveva composto alcuni dei canti più belli di Gs… Divenni molto amico anche di Dino Capra e dei suoi fratelli, coinvolti in Gs, tra loro c’era Gemma, che nel 1969 avrebbe sposato il commissario Calabresi. Eravamo tutti giovanissimi, più o meno coetanei. Dopo l’incontro con loro nel seminario cominciai a fare un po’ di “casino”: organizzavo i “raggi” – ricevendo anche io la traccia di riflessione che poi proponevo ai miei amici. Ero molto preso. Ricordo di aver organizzato nel teatro cittadino di Aosta una esibizione di Adriana Mascagni.
Siamo a metà degli anni 60. Gioventù studentesca è in grande espansione ed iniziano i problemi con le altre associazioni cattoliche. Nel 1965 don Giussani viene allontanato dalla guida di Gs, gli viene “suggerito” di recarsi negli Stati Uniti per scrivere la sua tesi di dottorato. Questi eventi incidevano sulla vostra esperienza?
Queste notizie arrivavano, naturalmente ma era un periodo di grande vitalità per Gs e i giovani che avevo incontrato non avevano perso il loro slancio in seguito all’allontanamento di Giussani. Mi parlavano con stima e serietà di don Vanni Padovani, il sacerdote chiamato a sostituirlo. Lo spirito dell’esperienza di don Giussani era comunque vivo. Tutti gli amici conosciuti a Courmayeur vennero alla mia ordinazione sacerdotale. Fu una grande festa.
Era il 25 giugno 1967. Le cronache ci dicono che Paolo VI, quella domenica, parlò del concistoro in cui avrebbe, fra gli altri, creato cardinale Karol Wojtyla. L’apertura del telegiornale invece era dedicata a un nuovo sanguinoso attentato compiuto in Veneto da terroristi sudtirolesi. Tu cosa ricordi di quel giorno?
Ricordo soprattutto il giorno 29 giugno, con la prima messa nel paese e l’affetto della gente di Valtournenche, tutto il paese partecipò alla cerimonia. Valtournenche era famosa per essere il paese che forniva più preti alla diocesi, eravamo una trentina, di cui sei o sette avevamo cognome Perron. L’affetto della gente e l’affetto degli amici di Gs: la famiglia di Dino e Gemma Capra mi regalò un calice con tutte le loro firme, lo conservo ancora.
Pochi mesi dopo, ottobre 1967, eccoti a Roma, il vescovo di Aosta ti manda nella capitale a proseguire gli studi. Inizia un capitolo nuovo della tua vita…
Inizialmente non fui contento della decisione del mio vescovo. Ero diventato prete per coinvolgermi con la gente, non per fare lo studioso. Arrivai a Roma con la macchina, una 600 Fiat, che mi avevano regalato per l’ordinazione. Ma non conoscevo nessuno, rimasi spaventato dal traffico della città. Ero stato a Roma solo un’altra volta, in precedenza, a un convegno missionario svoltosi ai Castelli romani presso il centro “Mondo migliore”. Ero disorientato in questa grande città, catapultato in un collegio di preti stranieri, cechi e slovacchi, il Collegio Nepomuceno, a piazza Tuscolo. Un ambiente triste... Lo aveva scelto il mio vescovo. Siccome non ero contento accelerai gli studi, nella speranza di tornare il prima possibile in Val d’Aosta. Così in un tempo record, appena un anno, ottenni la “licenza” presso l’Università Gregoriana.
Avevi fretta di tornare nelle tue valli e finalmente fare il prete…
Ma il vescovo fu impressionato dalla mia buona riuscita negli studi, si convinse che fossi portato negli studi e mi chiese di conseguire anche la laurea, tornando a studiare a Roma. Accettai, ma solo in spirito di obbedienza. D’estate, sempre a Courmayeur, avevo conosciuto monsignor Franco Costa, vescovo di Crema e assistente nazionale dell’Azione cattolica. Lui aveva appena aperto a Roma, sulla via Aurelia, un seminario per vocazioni adulte, il Collegio san Paolo e mi propose di stabilirmi lì, anche per aiutare il cammino di quelle persone più adulte che stavano formandosi per il sacerdozio. Accettai. In questo collegio, a Roma, conobbi Luciano Iannaccone, un seminarista che si era coinvolto con Gioventù studentesca nella sua terra d’origine, a Lodi. Poi conobbi Vittorio Flamigni, che si trovava nel Collegio Capranica a Roma e si era coinvolto in Gs a Forlì. Appena arrivato in Collegio, era l’ottobre del 1968, mi parlarono di un gruppo di giessini romani, alcuni dei quali stavano passando in università, che si sarebbe riunito nella basilica di santa Maria degli Angeli. Andai, era ancora un piccolo gruppo, una quindicina di persone, che si riuniva a casa della famiglia Corbò. Iniziai a coinvolgermi con loro. Per me era la possibilità di continuare a Roma l’esperienza che avevo vissuto con gli studenti milanesi a Courmayeur, con i quali avevo mantenuto un rapporto epistolare.
C’erano tra loro futuri leader di movimenti e comunità cattoliche…
Ricordo un giovanissimo Maurizio Ventura, allora 19enne, che poi divenne uno dei responsabili romani di Comunione e Liberazione, sempre impegnato nel mondo della scuola. Ricordo anche Andrea Riccardi, allora 18enne, e Agostino Giovagnoli, 16enne che poi avrebbero dato vita alla comunità di sant’Egidio. Strade che si sarebbero divise qualche tempo dopo ma, in quei primi anni, diciamo dal 1968 al 1971, era un gruppo unico, sotto la sigla di Gioventù studentesca. Si trattava di una rete di piccole comunità studentesche, organizzate in “raggi”: c’era ad esempio il raggio del liceo Albertelli, che faceva capo a Ventura, e il raggio del liceo Virgilio, che faceva capo a Riccardi. Ma erano amici. Ricordo un raduno di tre giorni che si tenne a Castel Madama nell'autunno 1969, dove parteciparono gli studenti di tutti i raggi. Anche al convegno nazionale d’inizio anno “sociale” di Gs, a Rimini, parteciparono rappresentanti di un po’ tutte le scuole. Sempre nel 1969 un piccolo gruppo partecipò a una vacanza estiva a Valtournenche. Nel mio album ho ritrovato una foto di quella vacanza, dove riconosco una giovanissima Anna Rizzuti e, un po' coperta, dietro, Michela Berardengo.
Oltre i “raggi” e la preghiera comunitaria, con la recita delle Ore, quali altre attività distinguevano questo gruppo?
Molto partecipata e coinvolgente era l’esperienza della “caritativa” (espressione coniata nella Gs ambrosiana di don Giussani). In quegli inizi si faceva nella zona del cinodromo di Ponte Marconi. I ragazzi aiutavano i bambini di un gruppo di famiglie di baraccati a fare i compiti per la scuola. Successivamente quando presi a insegnare religione in una scuola alla periferia Est di Roma, a Centocelle, gli studenti che si coinvolgevano nella nostra esperienza si recavano a Torpignattara tra i baraccati dell’acquedotto Alessandrino e successivamente, quando le baracche furono demolite, nelle case popolari a Torre Maura, sempre aiutando i bambini a fare i compiti. Quelli del liceo Orazio, dove iniziò a insegnare Maurizio Ventura, andavano nella baraccapoli vicino alla marana di Talenti. I ragazzi dei licei del centro invece facevano la “caritativa” a Tor Marancia. In molti casi nasceva un bel rapporto anche con le famiglie, non solo con i bambini.
Sono gli anni della contestazione. Il vento politico del ’68 si fonde con quello del rinnovamento religioso ispirato a un certo “spirito” del Concilio. Eravate anche voi, immagino, immersi in quel clima.
Sì, soprattutto le nostre liturgie risentivano di quel clima. Si celebrava normalmente la messa negli appartamenti, senza indossare abiti o paramenti liturgici, al posto delle ostie si usava il pane comune. Ripensandoci oggi, c’era in noi un po’ di “presunzione modernista”. Ci sentivamo come i primi cristiani, la Bibbia era in primo piano, il modello di riferimento erano gli Atti degli apostoli e le Lettere di san Paolo. Ricordo, nei testi che circolavano nelle scuole, espressioni come “Lettera di Andrea ai cristiani del Virgilio”.
Intanto Roma non ti spaventava più tanto come all’inizio, non avevi più la fretta di tornare in Val d’Aosta…
Nell’autunno del 1969, insieme a Luciano Iannaccone, lasciammo il collegio san Paolo e andammo a vivere in un appartamento in affitto nel popoloso quartiere di Pietralata. Nel mese di luglio del 1970 si organizzò con gli studenti una vacanza a Valtournenche, dove intervenne anche monsignor Giulio Salimei, responsabile dell’ufficio scuola del Vicariato. Questi ci affidò - a me, a don Luciano e a don Vittorio - dei locali nella basilica di santa Cecilia a Trastevere, per coordinare la pastorale studentesca della diocesi. Fu dunque la diocesi di Roma che persuase il mio vescovo d’origine a lasciarmi restare in città, dove ero sempre più coinvolto nell’esperienza di Gs. Nell’appartamento di Pietralata, intanto, si erano aggiunti alcuni studenti universitari fuori sede e, nell’ottobre del 1970, anche il giovane seminarista lucano Tommaso Latronico.
Mentre a livello nazionale inizia il travaso dalla Gs di don Giussani al nascente movimento di Comunione e liberazione, nel 1971 a Roma la rete dei “raggi” vive un’improvvisa crisi, che porta a dolorose fratture e alla nascita della comunità di sant’Egidio. Come andarono le cose?
Posso solo dire come vissi io questi fatti. Un primo evento che produsse disorientamento fu la crisi vocazionale di don Luciano Iannaccone. Ordinato prete nel luglio 1970 appena un anno dopo lasciò il sacerdozio, si era innamorato di una delle ragazze più impegnate. Iannaccone era un tipo carismatico, visionario, sosteneva che i tre perni di una presenza della Chiesa nel mondo giovanile dovessero essere la scuola, l’università e il quartiere. Anche don Giussani, in precedenza, aveva avuto modo di ascoltare e apprezzare le sue idee. Nell’estate del 1971 - un po’ scossi dalla vicenda di don Luciano - i vari gruppi delle scuole romane si ritrovarono a Courmayeur per verificare le prospettive future. Eravamo almeno un centinaio di persone. Emersero posizioni diverse. Attorno a me e a Maurizio Ventura, con riferimento all’appartamento di Pietralata, si decise di restare legati all’esperienza di Gioventù studentesca, che proprio in quel tempo a livello nazionale stava tramutandosi in Comunione e liberazione. Non si voleva creare un nuovo gruppo autonomo. Mentre attorno ad Andrea Riccardi confluirono soprattutto gli studenti del Virgilio con l’intento di proseguire l’esperienza avviata negli anni precedenti che intendeva unire uno spirito “monastico”, quindi la preghiera, con l’esperienza della condivisione soprattutto nei luoghi marginali e periferici delle “caritative”.
Il gruppo di Riccardi costituì il primo nucleo della successiva comunità di sant’Egidio. Sullo sfondo pesava la questione più calda in ambito cattolico negli anni del ’68: se l’accento sulla “liberazione” dovesse cadere più sull’azione sociale o sulla centralità dell’annuncio cristiano, come ci richiamava don Giussani evocando la metafora dei remi in barca: “Ci teniamo stretti Cristo, e basta”, diceva, incitandoci a non lasciarci prendere dalle smanie rivoluzionarie, la presunzione di poter cambiare il mondo con le nostre sole forze, che poi lascia vuoti e delusi.
Cosa ti persuadeva di più sulla bontà della strada intrapresa?
La vivacità dell’esperienza dei ragazzi e i frutti che vedevo, soprattutto nelle scuole. Dopo il Newton, vicino Piazza Vittorio, passai al Francesco di Assisi, a Centocelle e dal 1973 al 1976 alla sua succursale, sulla Tuscolana, il liceo scientifico XXIII, attualmente denominato Darwin. Sempre scuole statali. Al XXIII si coinvolsero nell'esperienza comunitaria tanti ragazzi che erano riconoscibili per la loro sorprendente unità e la vivacità culturale (Marco Bucarelli si mise in evidenza con una particolare verve politica all'interno della lista cattolica che contestava l'egemonia dei gruppi di destra e di sinistra nelle elezioni scolastiche). Ero il primo ad emozionarmi di fronte al coinvolgimento di tanti studenti. In molti casi ragazzi di borgata che scoprivano il cristianesimo come fonte di libertà, di verità di vita; era impressionante vederli in azione, nel comunicare agli altri studenti l’esperienza vissuta o vedere come si coinvolgevano con serietà ed entusiasmo nel doposcuola tra i baraccati dell’Alessandrino. Si trattava di abitazioni alquanto precarie, ricavate alla meglio attorno agli archi dell’antico acquedotto romano. Andavamo anche due volte a settimana. Iniziavamo sempre con una breve preghiera. Poi, concluso il dopo scuola, finivamo spesso in qualche bettola “Vini ed oli”, a bere e a cantare insieme, in allegria. Il primo dei ragazzi a coinvolgersi fu Costantino Palocci, che poi perse la vita in un incidente stradale. Ricordo Marino Tedeschi, con la sua chitarra, che aveva come compagni di classe alcuni giovani che finirono nelle Brigate rosse. Poi Paolo Terrinoni, Mauro Piccini e moltissimi altri. Ancora oggi mi commuovo quando, a distanza di decenni, rivedo alcuni di questi studenti diventati adulti, con mogli e figli: con tanti limiti e ambiguità, certo, ma è stata un’esperienza che gli ha trasmesso l’essenziale, la fede in Cristo, la partecipazione ai sacramenti, e c’è tanto affetto e riconoscenza in loro per questa storia.
Quando e come incontri la prima volta don Giussani?
Il ricordo più nitido che ho, fra i primi incontri con Giussani, è quello di una sua visita romana nel 1969. Era informato della nostra realtà e venne a Roma perché desiderava incontrare Kiko Arguello, il pittore spagnolo che dopo una profonda conversione, in età adulta, nel 1964 era andato a vivere in una baraccopoli alla periferia di Madrid e aveva iniziato l’esperienza del “Cammino neocatecumenale”. Giussani mi chiese di accompagnarlo da Kiko, che si trovava di passaggio a Roma dove nel 1968 era sorta nella parrocchia dei Martiri canadesi la prima comunità italiana del Cammino. Andammo in macchina e il viaggio, da Pietralata al centro di Roma, fu già un'esperienza molto bella. Sapendo delle mie origini valdostane Giussani prese a intonare con me dei canti di montagna, poi passò a canzoni degli anni Trenta; infine, provocato dai luoghi che stavamo attraversando, iniziò a parlare dei primi cristiani a Roma e si appassionava immedesimandosi in loro e nella loro storia straordinaria. Da Kiko andò da solo. Quando uscì dall’incontro era molto carico: “Questi ci credono davvero!”, ripeteva “dobbiamo imparare da loro”. Era fatto così, sempre pronto a valorizzare con entusiasmo ogni traccia di autenticità, anche esterna alla nostra esperienza. Giussani poi ci fu molto vicino nel periodo subito successivo alla frattura col gruppo da cui nacque Sant’Egidio. Veniva a trovarci, nell’appartamento di Pietralata, e la sua presenza era sempre di sostegno e di grande consolazione.
Alla fine del 1971 arriva a Roma e si unisce a voi un altro giovanissimo e vulcanico sacerdote, don Giacomo Tantardini, lombardo, appena 25enne. Come ricordi il suo arrivo? Cosa ti colpiva in lui?
Era timido, si accostò con molta discrezione alla realtà romana, ma quando predicava si trasformava, alzava la voce. E quando pregava sembrava “vedere” ciò che pregava. Questa sua chiarezza del rapporto con Cristo era la cosa che più impressionava tutti. Vivace, pieno di vitalità, a volte “estremo”, la sua presenza a Roma è stata una grazia per tutti ed anche per me. Era stato mandato nella città eterna dal vescovo di Milano ufficialmente per completare gli studi alla Gregoriana, con la licenza in Diritto canonico. Si stabilì al Collegio Lombardo, di fronte alla basilica di Santa Maria Maggiore e la quiete del Collegio fu presto invasa dalla vitalità del nuovo ospite e dei suoi giovani amici… Quando arrivò a Roma la comunità aveva appena vissuto la lacerazione di cui abbiamo parlato e che lui aiutò a superare. Nell’estate del 1972, a Giulianova, in Abruzzo, don Giacomo partecipò ad una vacanza con una trentina di studenti universitari ex giessini. Si può considerare questo, forse, l’atto di nascita del Clu, cioè della comunità degli universitari di Comunione e liberazione a Roma. Nel giro di pochi anni e nonostante il clima spesso di ostilità il gruppo si estese rapidamente, fino a coinvolgere nel tempo migliaia di giovani.
Ricordi qualche nome dei partecipanti alla vacanza di Giulianova?
Conservo una foto, piuttosto ingiallita di quel raduno al mare. La scattò probabilmente Marcello Fabbri, che era presente alla vacanza. Non riesco a individuare tutti i volti ma, giusto per fare alcuni nomi riconosco: Anna Galeazzi, Mauro Masotti Lorenzo Cappelletti, Pia Corbò, Fabio Ciaralli, Franca de Nardo, Pio Micarelli, Tommaso Latronico, Anna Lucia Lorizio, Priscilla Paolucci, Piera Iozzi, Carla Sargenti, Pierina Scalabrelli, Paola Cutrone, Piero Petrosillo, Valeria Gatti, Carla Conti, Maria Marinelli, Michele Tuzzolo e sua moglie Pina. Non compaiono nelle foto ma a Giulianova c’erano anche Rocco Buttiglione, allora 23enne, giovanissimo assistente del filosofo Augusto del Noce e, naturalmente, don Giacomo.
L’amicizia fra i sacerdoti è un filo che ha sempre accompagnato la storia del movimento a Roma. Per un periodo avete abitato anche insieme.
Dal 1971 al 1973, dopo la vacanza di Courmayeur e la crisi di Luciano Iannaccone, avevo abitato con Tommaso Latronico in una mansarda di via dei Durantini. Il rettore del Collegio Capranica, monsignor Franco Gualdrini, che ci voleva bene, aveva dato a Tommaso il permesso di completare la sua formazione al sacerdozio fuori dal seminario, in un appartamento “laico”, cosa abbastanza rara per quei tempi. Poi nel 1973, anno dell’ordinazione sacerdotale di Tommaso, andammo ad abitare con don Giacomo in un altro appartamento, in via Aosta, vicino san Giovanni. A noi si unì per un breve periodo anche don Carlo Negrotti, un sacerdote della diocesi di Bergamo, il quale si era coinvolto nella nostra esperienza ed era attivo in una scuola di Centocelle, il Benedetto da Norcia; aveva aggregato molti ragazzi del quartiere, tra loro anche un giovanissimo Antonio Savasta, che partecipò per qualche tempo alla “caritativa” di Gs nell’acquedotto Alessandrino e successivamente, alla fine degli anni 70 entrò nella colonna romana delle Brigate rosse.
Gianni Dessì, docente all’Università di Tor Vergata, ha raccontato nel libro “Un’azalea in via Fani” che fu proprio Savasta a invitarlo al dopo scuola di Torpignattara, facendogli scoprire tramite Gs una profonda esperienza di fede che ha segnato tutta la sua vita. Le “sliding doors” del destino…
Ma torniamo a via Aosta.
Nell’appartamento di via Aosta restammo due anni, fino al 1975. Poi con don Giacomo ci trasferimmo alle Cappellette, in via Liberiana, di fronte alla basilica di Santa Maria Maggiore. Si trattava di uno storico edificio di proprietà del Vicariato (da bambino vi aveva ricevuto la prima comunione Giulio Andreotti) che ci venne dato in affitto e fu adibito a dimora degli studenti fuori sede. Il movimento era cresciuto in fretta, in quegli anni, e gli universitari erano diverse centinaia; fra loro c’era una buona percentuale di studenti provenienti da altre regioni, soprattutto Abruzzo, Basilicata, Puglia, Calabria. Per molti studenti fuori sede, ma anche per quelli romani, le Cappellette resteranno un’esperienza memorabile.
Negli anni 70 e 80 fra i giovani del movimento fiorirono molte vocazioni, sia verso i Memores Domini sia verso il sacerdozio. Due dei primi ragazzi di Gs a Roma, Maurizio Ventura e Lorenzo Cappelletti, scelsero di farsi sacerdoti. Anche con loro hai vissuto un legame profondo che non si è mai spezzato…
Certamente, un legame profondo. Per Maurizio e Lorenzo si trattò di vocazioni adulte, avevano già terminato gli studi universitari a Roma. Una decisione matura e consapevole. Li ricordo seminaristi al Collegio Capranica, a due passi dal Pantheon. Ma erano anni di grande attivismo per Cl e in seminario finivano per starci poco tempo. Io mi prestavo a riaccompagnarli in extremis, prima di mezzanotte, nel Collegio! Maurizio è stato ordinato nel 1980, aveva 31 anni, Lorenzo nel 1982, di anni ne aveva 29.
Siamo rimasti uniti, pur nelle differenze di temperamento e di storie personali. Ad unirci era un certo spirito non dico battagliero ma combattivo e anche intraprendente, per quanto riguarda il coinvolgimento nell’ambiente studentesco. Maurizio sempre con i ragazzi nelle scuole, insegnante e infine preside del San Gabriele; Lorenzo con gli universitari, poi viceparroco di don Giacomo a Tor Vergata, giornalista nel mensile 30Giorni e docente di storia della Chiesa nell’Istituto teologico di Anagni. Ancor più ad unirci è stata quella fede solida che veniva soprattutto dall’essere vicini a don Giacomo. L’impronta, la motivazione più profonda, nel rapporto con Cristo, l’abbiamo ricevuta da lui, non c’è alcun dubbio. Anche il rapporto con don Giussani era inscindibile da quello con Giacomo. E d'altra parte Giussani ci suggeriva sempre di seguire la sua esperienza di fede.
Quanti anni della tua vita hai dedicato alla scuola e all’insegnamento?
Quasi trent’anni! E direi che la diocesi, più sollecitata da altri che non da me, ha spinto per il conferimento del titolo di Monsignore (ho una pergamena da qualche parte, ma non so bene dove) soprattutto come atto di riconoscimento di questo grande impegno con i giovani delle scuole romane. Ho insegnato sempre nelle scuole statali, con l’unica bella eccezione del Cristo Re, un istituto privato, dove era diventata preside Donatella Regoliosi. Non ho mai smesso di insegnare, anche quando sono diventato parroco. Indimenticabili gli anni dal 1977 al 1985 nei licei Albertelli e Augusto. Quanti volti di ragazzi e ragazze incontrati durante le lezioni, all’ora di religione, rapporti che sono andati oltre la scuola e che in molti casi restano vivi ancora oggi.
Cosa ti ha appassionato di più di questa esperienza?
Mi appassionava il fatto di potermi offrire come compagno di viaggio, interessato alla loro umanità e attento a scorgere i più piccoli segnali di crescita per valorizzarli. Penso a tante esperienze concrete. Ad esempio, al liceo Augusto conobbi Gianni Valente (ora giornalista, direttore dell’agenzia Fides) e lui era molto preso dalla musica di Claudio Baglioni. Mi passava i testi delle sue canzoni e mi capitava di citarli nelle mie lezioni che riprendevano i temi de Il Senso religioso di don Giussani, e quindi la nostalgia di bene, di felicità che c'è in ogni uomo. Cercavo di valorizzare gli interessi degli studenti. Un altro studente di quegli anni, Fabio Pierangeli (oggi poeta e professore universitario) aveva la passione per il pin pong, che mi trasmise, andavamo a giocare a casa sua nei ritagli di tempo libero, e allora tra le iniziative autogestite nella scuola organizzammo un grande torneo di tennis da tavolo che coinvolse un gran numero di studenti. Piccole cose, occasioni di un incontro che non poneva limiti, era aperto a tutti. Ricordo uno studente, molto impegnato nelle frange della sinistra extraparlamentare, Alberto, non condivideva le mie idee ma mi ha sempre voluto bene e qualche volta ci incontriamo ancora adesso, con lui e con Gianni Valente, insieme.
Come hai visto cambiare i giovani in questi trent’anni?
La radicalità con cui i giovani avevano a cuore un cambiamento, nel primo periodo dell’insegnamento, mi provocava molto di più del disinteresse e del menefreghismo dei tempi più recenti. Ma anche questo menefreghismo è una sfida. A domandare sempre le ragioni di ogni affermazione, di ogni critica, di ogni contestazione. Non dando mai risposte a priori, dogmatiche, ma sempre partendo dalle domande che la vita pone ai ragazzi. Andavo spesso a scuola con le cassette musicali da far sentire in classe, valorizzavo testi di Baglioni, di Battiato, fra i non italiani mi piacevano Simon and Garfunkel! Imparavo dai miei studenti, assumevo i loro interessi per raccontare cosa è il cristianesimo, come risposta alle attese più profonde della persona. Nel “raggio” che si teneva a Nepi conobbi Stefania Falasca, (ora giornalista di Avvenire e moglie di Gianni Valente), mi mostrò la sua agenda che era fitta di citazioni letterarie, poesie, libri…. Mi impressionò molto, ne feci una copia, e la portavo sempre a scuola con me, utilizzavo quelle citazioni nelle mie lezioni e nel dialogo con gli alunni.
Un'altra esperienza che ha segnato la tua vita è stata quella di parroco. Sempre nella stessa parrocchia: nel quartiere periferico “Vigne nuove” sorto vicino al gran raccordo anulare, a ridosso di un mega centro commerciale. All'inizio la chiesa era solo un garage…
La parrocchia fu eretta, con un decreto del Vicariato, nel settembre 1983. Fui nominato parroco dal cardinale Ugo Poletti. Ma non c’era niente, né la chiesa né la casa per me. Dovetti cercare tutto da solo, un locale provvisorio dove celebrare la messa e una sistemazione logistica per me. Credo di essere stato l’unico caso di un parroco senza chiesa e senza casa. Trovai un locale che provvidenzialmente era proprio al centro del nuovo quartiere che stava nascendo, alla periferia nord-est di Roma. Era una chiesa-garage eppure la gente del quartiere ricorda quegli inizi come una stagione entusiamante. La piccola parrocchia diventò presto un riferimento per tutto il quartiere. Anni bellissimi, anche se non mancarono episodi complicati e avventurosi: uno squilibrato una volta si barricò in chiesa brandendo un coltello, la polizia cercò di negoziare la resa con uno psicologo ma l’uomo disse che si fidava solo di don Donato e si consegnò docilmente alle forze dell’ordine; in un’altra occasione un insegnante contagiato da un furore satanista fece irruzione mettendo a soqquadro la chiesa, ma poi il giorno dopo, terminata l’udienza al tribunale, lo dovetti riportare a casa io, in macchina, con i suoi genitori in lacrime. Restammo nel garage sette anni, fino al 1991, quando fu inaugurata la nuova chiesa. In occasione della festa di sant’Alberto Magno - santo a cui è dedicata la parrocchia - nel 1989 ricevemmo la visita del papa, Giovanni Paolo II. Vennero migliaia di persone. Il papa celebrò la messa all’aperto, in mezzo ai palazzi. Rimase molto colpito dalla partecipazione popolare e dalla vivacità delle iniziative parrocchiali. “Qui non avete la chiesa - disse – ma si vede che la parrocchia è dappertutto”.
La sua visita lasciò il segno. Crebbe anche il desiderio e l’impegno perché la nostra comunità avesse finalmente un edificio dignitoso e capiente in grado di accogliere tutta la gente nelle celebrazioni. Lanciammo una grande sottoscrizione che coinvolse tanti amici, sia a Roma sia in Val d’Aosta. Si raccolse in breve tempo una cifra importante e il cardinale Vicario, Ugo Poletti, inserì la parrocchia nel progetto delle nuove chiese di Roma. Così, due anni dopo la visita di Giovanni Paolo II, la nuova chiesa venne consacrata dal cardinale Camillo Ruini.
Quali le esperienze più belle?
Direi la familiarità con la gente. Veder crescere pian piano la contentezza di vivere nel quartiere. All'inizio la gente viveva male, c’era estraneità, diffidenza, venivano tutti da altri quartieri, sradicati, l’ambientazione non è stata facile. La parrocchia ha aiutato a creare un senso di comunità. La festa patronale nel quartiere coinvolgeva tutti. I locali della parrocchia ospitavano iniziative sportive o musicali o di patronato sociale che calamitavano anche persone che normalmente non avrebbero messo piede in chiesa. Il Centro di solidarietà ha aiutato tanta gente bisognosa a trovare un lavoro, potendo far leva anche sulla rete di cooperative nel campo della ristorazione o delle pulizie nate da giovani universitari a Roma, su impulso di don Giacomo. Una delle cose per me più belle è stato il rapporto col personale del centro commerciale “Porta di Roma”, che rientra nei confini della parrocchia.
I centri commerciali sono stati definiti “cattedrali del consumismo”. Una sorta di antitesi culturale rispetto alla fede cristiana…
Però lì dentro ci lavorano persone, persone come noi. Anime, nel territorio della parrocchia. È stato sempre sorprendente vedere la disponibilità con cui mi accoglievano. Fin dall’inizio, quando furono aperti i cantieri. Ad alcuni dei responsabili, con cui ero diventato amico, proposi di benedire i locali (e i lavoratori che lo desideravano) in occasione del Natale o della Pasqua. Vennero in tanti. Così loro stessi espressero il desiderio di ripetere ogni anno questo gesto. Man mano l’esperienza delle benedizioni si estendeva ad altri negozi. Dicevo poche parole, ma con il cuore, e invitavo, chi voleva, a unirsi nella recita di un’Ave Maria. È inimmaginabile la contentezza con cui la gente rispondeva a questa iniziativa. Ad un certo punto, dai vertici internazionali di Ikea giunse il divieto di ospitare gesti religiosi confessionali all’interno dei locali. I responsabili locali e il personale di Ikea non volevano rinunciare a questo gesto ed ebbero quindi l’idea di vederci all’esterno, in modo informale, nel piazzale antistante. E così facemmo. Naturalmente la partecipazione era libera, ma vennero in tanti, e furono contenti; con molti è rimasto un bel rapporto, alcuni di loro mi hanno chiesto di celebrare matrimoni o battesimi.
Nella tua casa romana, fra mille foto, campeggia una gigantografia del Cervino che occupa tutta una parete. Lassù, su quella vetta, tu ci sei stato ed hai celebrato la messa. Come è nata la tua grande passione per la montagna?
Il seminario di Aosta aveva una casa estiva proprio a Valtournenche e tra i nostri educatori molti avevano la passione per l’escursionismo. Ci accompagnavano in camminate lunghissime e impegnative che, a pensarci adesso, fanno tremare i polsi: sveglia alle 4 del mattino, tappa sui ghiacciai del Plateau rosà, ascesa al monte Breithorn. Una gran fatica, ma entrando nel cuore della montagna non potevo non rimanerne conquistato. Appena ordinato sacerdote con mio zio salimmo in vetta al Dente del Gigante, nel massiccio del monte Bianco, 4.013 metri, e lassù celebrammo messa insieme, davanti ad una statua della Madonna che era stata collocata sulla cima. Poi la passione è venuta crescendo proprio con la lontananza dalla montagna, quando fui inviato a Roma. Alcuni amici romani condividevano questa stessa passione. Scoprii che Maurizio Ventura era solito fare le vacanze con la famiglia in Val d’Aosta e, addirittura, aveva partecipato ad alcuni incontri con alpinisti organizzati da mio zio don Cirillo a Courmayeuer. Così quando tornavo d’estate dalle mie parti, organizzavo sempre delle escursioni in alta montagna con qualche studente romano. Oltre alle camminate con gli amici, insieme ad un amico milanese esperto alpinista, Gianfranco Seregni, e suo figlio Claudio, cominciammo a scalare alcune montagne finché fummo pronti a salire in vetta al Cervino. Il grande giorno arrivò il 15 agosto 1974. Nel libro-diario del rifugio ho ritrovato il pensiero che scrissi quel giorno: “Ho realizzato oggi, festa di Maria Assunta, un’aspirazione coltivata da anni. Ho potuto inoltre, causa un tempo meraviglioso, celebrare la Messa in vetta: abbiamo pregato per tutti gli alpinisti e abbiamo ricordato quelli che sono morti su questa montagna. Mi hanno accompagnato due carissimi amici e ottimi alpinisti”. Purtroppo non ho foto di noi sulla vetta, perché mentre salivamo mi è scivolata la macchinetta fotografica ed è finita in un burrone.
Ci tornasti più in cima al Cervino?
Sì, con un giovane don Maurizio Ventura il 9 agosto 1983. Fu una scalata difficile e pericolosa. Il tempo mutò all’improvviso, le nuvole e il nevischio ci fecero perdere la visibilità e nella discesa rischiammo davvero di smarrirci e di scivolare. Tornammo al campo base sani e salvi, ma imparammo una volta di più che la montagna va trattata con rispetto e timore.
Quali altre cime hai scalato?
Tra le più importanti ricordo il Monte Bianco, 4.809 metri, sempre con don Maurizio, dove fu molto importante l’allenamento alla respirazione per l’elevata altitudine ed era richiesta molta attenzione in alcuni passaggi assai pericolosi. Insieme ad altri amici romani passammo alcuni giorni al rifugio Gnifetti, a quota 3.600 metri, sopra Gressoney, da cui ogni giorno partivamo per raggiungere diverse cime del Monte Rosa. Fuori dalla Valle d’Aosta ricordo l’ascensione al Bernina, in Svizzera, 4.049 metri, molto impegnativa, ghiaccio insidioso, grande pendenza, passaggi molto esposti; salimmo insieme con altri amici, tra cui il leggendario Stefano Pagliuca.
Ma cos’è che ti affascina di più della montagna? Per alcuni l’alpinismo è solo un voler superare i propri limiti, vincere una sfida estrema, con sé stessi e con la natura…
Per me no, la montagna è bellezza, è la sorpresa perenne, un luogo dove non ti puoi abituare a ciò che vedi, ogni istante è motivo di stupore. Alcuni mi prendono in giro, dicono: “tu ci parli con la montagna…”. Da un certo punto di vista sì, è un dialogo, quasi per una gratitudine, una riconoscenza che si presenta sempre nuova, sempre affascinante. È indicibile lo spettacolo, il panorama che ti ritrovi a contemplare lassù. Certo, c'è anche la soddisfazione di esserci arrivato, lassù. Ma non è uno spirito di sfida, il superare i propri limiti, e nemmeno l’ostentazione pubblica di un'impresa riuscita. È piuttosto la sorpresa continua di questa bellezza, che si gusta ancora di più quando si sale con gli amici. E poi poter celebrare la messa sulle vette, è un’esperienza unica, per me che sono sacerdote. (Qui sono con don Cirillo, sul Dente del Gigante).
Misterioso il tuo destino: un prete alpinista portato dalla vita, e dalla sua fede, a vivere nella periferia romana. Quando il tuo vescovo ti spedì a Roma non ne fosti molto felice. Come è avvenuto l’innamoramento per la città eterna?
Il mio coinvolgimento, anche affettivo, con Roma va di pari passo con il coinvolgimento con gli amici che in questa città mi sono stati donati. Con loro ho imparato a scoprire e gustare le tracce che la fede, sin dai primi cristiani, ha lasciato a Roma. I luoghi più belli e suggestivi di questa grande storia. Poi, nel tempo, ho imparato ad amare tutto di Roma, anche le periferie, dove il paesaggio è segnato dai resti degli antichi acquedotti romani e dai palazzoni cresciuti in fretta negli anni Sessanta. Insegnando a Centocelle e sulla via Appia, ho scoperto l’umanità dei ragazzi di periferia. Penso a Pasolini, anche lui venuto da lontano, un paese del Friuli; si affezionò a Roma attraverso le sue esperienze nelle borgate della città. Un intellettuale che ho sempre apprezzato. Nei primi tempi che ero a Roma ebbi la possibilità di vedere di persona Pasolini. Fu in un cinema all’Eur, dopo la proiezione del film “Uccellacci e uccellini” intervenne il regista. Ne conservo un bel ricordo, il suo sguardo sulla realtà e sul potere era intelligente e libero. Io ho vissuto quasi sempre nella periferia. A Pietralata, oltre la casa dove abitavamo, aprimmo un punto di incontro, una sorta di sede, e c’era il gusto di ritrovarsi con la gente del quartiere. Non ho mai ripudiato il mio dialetto, il patois, e nemmeno ho mai assorbito la parlata romanesca; quando torno nella mia terra d’origine mi dicono che l’accento romano si sente ma nello stesso tempo sono sorpresi del fatto che dopo tanti anni sono ancora in grado di parlare il dialetto valdostano. Loro mi parlano in italiano ed io li sorprendo rispondendo in patois. D’altra parte credo di essere uno dei rari esemplari di un valdostano trapiantato felicemente a Roma. Innamorato del Cervino e della Città Eterna.
MI RIFERISCO ALL'ART.SU DON DONATO PERRON. BELLISSIMO!
HO CONOSCIUTO LA REALTÀ DA CUI È NATO IL MOVIMENTO IN ABRUZZO, ASSIEME A QUELLA DEGLI UNIVERSITARI DI PESCARA CHE AVEVANO INCONTRATO IL MOVIMENTO A BOLOGNA. GRAZIE!