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Javier e il folle di Dio

  • Immagine del redattore: Lucio Brunelli
    Lucio Brunelli
  • 13 ore fa
  • Tempo di lettura: 5 min

Aggiornamento: 19 minuti fa

Ateo, laicista militante, anticlericale. Così si definiva Javier Cercas, il piu importante scrittore spagnolo vivente, prima di imbarcarsi sul volo papale con destinazione Mongolia. Il libro in cui narra il suo viaggio è pieno di incontri avvincenti e di sorprese. Cosa risponderà il Papa alla sua domanda, se dopo la morte riabbracceremo davvero le persone più care? Una delle sorprese riguarda anche un anziano vaticanista in pensione che, inaspettatamente, si è trovato a diventare uno dei personaggi di un romanzo "senza finzione".


Nell’agosto del 2023 ricevetti una telefonata da Lorenzo Fazzini, direttore della Lev, la casa editrice del Vaticano. Mi disse che Paolo Ruffini aveva proposto al romanziere spagnolo Javier Cercas di seguire il viaggio del Papa in Mongolia, allo scopo poi di raccontare la sua esperienza in un libro. Cercas aveva accettato ma prima di imbarcarsi sul volo papale desiderava documentarsi nel migliore dei modi sull’uomo Bergoglio e sul suo pontificato. Fazzini mi chiedeva se fossi disponibile a incontrare lo scrittore, per fornirgli un po’ di background su Papa Francesco e rispondere a sue eventuali domande.

Non avevo ancora letto nessun libro di Cercas, le poche notizie su di lui le appresi velocemente su google: già docente universitario, scrittore da un milione di copie vendute in tutto il mondo, ateo, opinionista de El Pais … Dopo un po’ di esitazione, rassicurato da Fazzini che si trattava solo di un colloquio informale, mi rassegnai ad accogliere il suo invito.

Con Cercas ci incontrammo il 30 agosto, il giorno precedente la partenza per la Mongolia, in una stanza adiacente all’ufficio di Fazzini, in Vaticano. L’appuntamento era alle 15,30 e faceva caldo. Mi aspettavo una chiacchierata di una mezz’oretta. In realtà il dialogo fu così coinvolgente che, quando ci congedammo con un lungo abbraccio, il sole era già tramontato alle spalle del Cupolone. Mi chiese di poter registrare il colloquio, ma io pensavo che gli servisse solo come base di appunti. Invece poi scoprii (con un certo terrore) che ero diventato uno dei personaggi del suo libro, citato 86 volte.


Javier ha dieci anni meno di me (è del 1962), occhiali con grosse lenti, la carnagione chiara, i capelli neri con un ciuffo disordinato sulla fronte e una splendida chierica su cui ama scherzare, anche in pubblico (“la mia umiliante chierica da novizio”). Parlammo di tutto. Di Bergoglio, di come l’avevo conosciuto e cosa di lui mi avesse impressionato, di chi nelle sacre stanze lo amava e di chi pregava per la sua morte, del celibato dei preti, dell’ordinazione sacerdotale delle donne e di tutte le obiezioni che di solito i laici muovono alla Chiesa cattolica. Ma poi abbiamo sconfinato, Cercas ha voluto sapere della mia fede, insomma perché credessi in Cristo e se l’atto del credere fosse solo un salto nel buio, perché a lui (ma pure a me) la fede come “scommessa” alla Pascal non attrae per nulla. Man mano che il dialogo andava avanti si faceva più interessante. La cosa più sorprendente per me era proprio la sua sorpresa. Un intellettuale che non pensa di sapere già tutto, uno che ascolta davvero.

Ricordo i suoi occhi neri spalancati quando raccontai di come avevo riscoperto la fede cattolica dopo una giovinezza inquieta e gli citai un’espressione ascoltata da don Giacomo, il sacerdote che mi riportò nella Chiesa: “Il cristianesimo è l’incontro con una realtà così umana che umanamente è inspiegabile”. Delle tante cose che gli dissi di Bergoglio quella che più lo fece sobbalzare sulla sedia fu la citazione dell’umorismo come “l’espressione umana più somigliante alla Grazia divina”. Mi spiegò, estasiato, che in spagnolo si dice “grazioso” proprio di una persona dotata di senso dell’umorismo. Non so spiegarmi perché ma tra noi, che non ci conoscevamo e che abbiamo storie diversissime, nacque in quel colloquio una immediata “corrente di simpatia” (così la definisce nel libro).


Ci sono credenti intelligenti e credenti ottusi. Così ci sono laici ottusi e laici intelligenti. A Javier il buon Dio ha fatto generoso dono dell’intelligenza. Si era letto decine di interviste a Francesco e su Francesco, aveva visto film e documentari di registi d’autore. Era colpito - mi diceva - dal fatto che del Papa argentino spesso si raccontasse la dimensione politica, le prese di posizione pure importanti sul clima, sugli immigrati, sull’economia… “Ma raramente si racconta la sua fede, raramente lo si interroga sulle grandi questioni del credo cattolico, come la vita eterna e la resurrezione della carne”. Proprio quest’ultimo tema lo intrigava. Sua madre, cattolicissima a differenza del figlio, si domandava spesso se dopo la morte avrebbe riabbracciato l'amato marito, già in cielo. Quando a Javier fu proposto di seguire il Papa fino in Mongolia, pensò che quella fosse l’unica domanda che avrebbe desiderato rivolgere al Capo della Chiesa cattolica: “Posso dire a mia madre che rivedrà suo marito dopo la morte?”. L’unica domanda. Anzi, tutta la trama del suo libro in gestazione si sarebbe dipanata attorno a quel quesito-enigma.


Il genere letterario inventato da Cercas è stato chiamato “romanzo no-fiction”. Niente finzione, solo realtà, ma raccontata come un romanzo. Durante il volo per la Mongolia è riuscito a parlare dieci minuti da solo con il Papa e a porgli la domanda che voleva. Tutte le 464 pagine del “Folle di Dio alla fine del mondo” si sfogliano come un thriller, con la risposta di papa Francesco svelata solo alla fine, dopo un’attesa carica di suspence.

I personaggi del libro sono tutti reali: quelli che incontra prima durante e dopo il viaggio in Mongolia. Del mondo vaticano compaiono Lorenzo Fazzini, Paolo Ruffini, Andrea Tornielli, Antonio Spadaro, Salvatore Scolozzi e i cardinal Manuel Fernandez, Tolentino de Mendonza, Giorgio Marengo.



L’incontro che più tocca il cuore e la mente di Javier è quello con i missionari che operano in Mongolia. “Sono loro l’essenza del cristianesimo, i veri folli di Dio”, confida a Simonetta Fiori, di Repubblica.

Ho rivisto Javier il giorno della presentazione del libro a Roma, il 3 aprile, nell’Auditorium Parco della musica. A dialogare con lui c’erano Aldo Cazzullo e Sabina Minardi. Gli è stato chiesto se dopo questo lungo viaggio in Mongolia (e nella Chiesa) lui, “ateo, anticlericale e laicista militante” avesse ritrovato la fede dell’infanzia.


Ha risposto prima con una battuta (“non posso dirlo perché altrimenti non venderei una copia di questo libro”) poi seriamente: “molti pregiudizi sono caduti e ho sentito una crescente nostalgia di Dio”. Il suo amico Cazzullo lo pressava, invitandolo a compiere l’ultimo passo della sua conversione; lui ha replicato che la fede “è un dono, non un atto di volontà”. La cosa più umanamente vera (e cattolica) che potesse dire.

Non condivido tutto di ciò che Javier scrive, specie quando si addentra in letture psicologiche dell'uomo Bergoglio. Ma il libro è stupendo e geniale si è rivelata la spericolata intuizione di Ruffini, prefetto del dicastero per la Comunicazione della Santa Sede.

La pagina che a me ha più commosso è verso la fine del libro (p.402) quando racconta la sua ripartenza da Roma, dopo il viaggio in Oriente. Avevamo cenato insieme a piazza Risorgimento, c’erano anche Fazzini, Ruffini con sua moglie Maria e Tornielli. Avevamo scherzato e discusso di tante cose, in un’atmosfera schietta e fraterna. Scrive Javier: “Mi dico che chissà, che si sono viste cose più strane e che, forse, se avessi avuto un gruppo di amici come quello, sarei ancora cattolico e crederei nella resurrezione della carne e nella vita eterna”.



 
 
 

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