Un convegno a Roma sui cento anni dal primo Concilio della Chiesa cinese offre lo spunto per rileggere la storia tribolata e insieme gioiosa dei cattolici nel continente più popoloso del pianeta. Dalle guerre dell'oppio alla tolleranza zero del tempo di Mao Tze-tung, dai primi contatti segreti con Pechino al mini concordato attuale sulla nomina dei vescovi. Cercando di andare oltre lo schema caro ai media ma ormai obsoleto delle "due chiese", la clandestina e la patriottica.
La storia è importante. Se non si conosce la storia non si capisce il presente. C’è stato un tempo i cui l'Inghilterra patria della democrazia moderna voleva imporre alla Cina l’importazione dell’oppio dalla India, colonia britannica. Siccome la Cina si opponeva, giustamente, al consumo di droghe, sua Maestà la regina Vittoria diede ordine alle sue navi di prendere a colpi di cannone i porti cinesi finché le autorità non si piegarono: firmarono umilianti decreti di sottomissione che esponevano la popolazione con gli occhi a mandorla alla dipendenza dalla droga.
Non fu una bella cosa. Le guerre dell’oppio datano intorno alla metà dell’Ottocento. L’avversione profonda alla prepotenza straniera in Cina covava sotto la brace e si accese in forme violenta all’inizio del Novecento, con la rivolta dei boxer. Ne fecero le spese anche i luoghi cristiani e i cinesi convertiti dai missionari stranieri giunti in Cina sotto il “patronato” delle potenze coloniali.
La storia è importante per capire chi hai di fronte. La sua psicologia, i suoi tic, i nervi scoperti. Cento anni fa, nel maggio del 1924, a Shanghai fu celebrato il primo concilio della Chiesa cattolica in Cina. Il canone 431 chiedeva ai Vicari di costituire “comitati di laici per animare campagne di contrasto al traffico di droghe”. Il canone 432 proibiva tassativamente ai cattolici “la coltivazione e il consumo di oppio”. Non erano solo formulette morali. Era dire da che parte stava la Chiesa. Distinguere la comunità cristiana in Cina dal volto criminale di un’Occidente sedicente “cristiano” ma interessato cinicamente solo ai suoi commerci; distinguere per rendere più credibile l’annuncio di Cristo nel continente più popoloso del pianeta.
È stato Gianni Valente, direttore dell’agenzia Fides e appassionato conoscitore delle relazioni sino-vaticane, a dettagliare le direttive del concilio di Shanghai nel corso del convegno tenuto il 21 maggio presso la Pontificia Università Urbaniana a Roma. Convegno che ha voluto celebrare il centenario del primo sinodo cinese (oggi lo chiameremmo così, sinodo non concilio).
Fra le altre prescrizioni approvate nel 1924 e ricordate da Valente c’era il divieto di esporre bandiere nazionali nelle case degli istituti missionari e il suggerimento di utilizzare solo scritte in caratteri cinesi sulla facciata delle chiese. Insomma una predicazione che evitasse, come recita il canone 25, di «confermare presso gli autoctoni l’inveterato pregiudizio che la propagazione della fede serva a procurare vantaggio all’una o all’altra nazione». Si raccomandava infine di procedere con coraggio verso la indigenizzazione del clero, aprendo finalmente la strada alla consacrazione dei primi vescovi cinesi.
Il Concilium sinense fu un evento profetico: anticipò di quarant’anni il Concilio ecumenico Vaticano II. Ne fu geniale interprete il Delegato apostolico in Cina mons. Celso Costantini, che diede attuazione coerente alle indicazioni fornite in questo campo da Benedetto XV nella sua Lettera apostolica Maximum illud (1919); il Papa insisteva sul fatto che i missionari “non sono inviati dalla loro patria ma da Cristo”.
La storia è complessa. Va raccontata, almeno a grandi linee. Dopo la seconda guerra mondiale, nel 1949, la Cina finì nelle mani dei comunisti di Mao Tze-tung. Al persistente sospetto che vedeva dietro i missionari cristiani la longa manus delle potenze coloniali si unì il furore ideologico del marxismo che vedeva in ogni religione “l’oppio dei popoli”, appunto. Furono tempi bui per tutte le religioni e in particolare per la minoranza cattolica. Il culmine delle persecuzioni si ebbe al tempo della rivoluzione culturale. Tutte le chiese (tranne una) furono chiuse, trasformate in granai per il popolo. Il clero imprigionato o costretto nei campi di rieducazione. Alcuni vescovi obbligati a sposarsi. Tempo di sofferenze atroci e di umiliazione, mentre noi giovani sessantottini in Italia ci esaltavamo per le follie della “rivoluzione permanente”.
Negli anni 80 le cose presero una piega diversa con l’ascesa al potere del pragmatico Deng Xiaoping. Le chiese furono gradualmente riaperte, molti fedeli (oggi si parla di circa 16 milioni di cattolici cinesi) ripresero a frequentarle ma il controllo del governo sulle comunità cristiane era totale.
Per poter esercitare il loro ministero i sacerdoti e i vescovi sopravvissuti alla mannaia di Mao dovevano iscriversi all’Associazione patriottica dei cattolici cinesi, il regime si riservava il potere di decidere le nomine dei nuovi vescovi, ignorando completamente la Santa Sede. Le consacrazioni erano valide, (perché ad imporre le mani erano altri vescovi “regolari”) ma illegittime (perché prive dell’approvazione del Papa). I vescovi "patriottici" erano quindi passibili di scomunica. Si voleva una Chiesa “indipendente” da ogni interferenza straniera e anche il Vaticano, con una semplificazione brutale e ideologica, era considerato alla stregua di una qualunque potenza straniera. Una fetta importante della minoranza cattolica non accettò questi diktat e si rifugiò nella clandestinità: messe celebrate di nascosto negli appartamenti, vescovi consacrati segretamente. Una spaccatura drammatica.
Col passare degli anni le cose ebbero una nuova evoluzione. A Shanghai emerse la figura di un vescovo “patriottico” sui generis: Jin Luxian, gesuita, alle spalle 18 anni di detenzione nelle carceri comuniste e nove al confino.
Egli decise di collaborare con le associazioni cattoliche filogovernative ma cercando dall’interno di sanare la ferita con Roma. Nel 1985 accettò la nomina governativa a vescovo di Shanghai. Lo conobbi ed ebbi modo anche di intervistarlo durante un suo viaggio in Europa. Conservo come un ricordo prezioso alcune sue lettere. Nel 1989 potei partecipare ad una messa da lui celebrata nella cattedrale di Shanghai; si pregava tranquillamente per il Papa, fu emozionante la recita del Credo in latino. Non ho mai sentito come quel giorno l'atmosfera della cattolicità, l'universalità della Chiesa. Credo che davvero Jin Luxian non fosse quel "traditore" dipinto dai circoli della destra cattolica americana e cercasse sinceramente l’unità della Chiesa cattolica cinese con il Papa. Nella lunga intervista che gli feci nel 1987 a Lucerna (Svizzera) per 30giorni mi disse sorridendo: "noi siamo cattolici, fedeli e romani... più romani di alcuni funzionari della curia romana!". Aveva studiato a Roma, alla Università Gregoriana, fu grande amico ed estimatore di Giulio Andreotti il quale nei suoi viaggi istituzionali a Pechino non dimenticava mai di citare il gesuita Matteo Ricci come simbolo dell’amicizia fra il popolo cinese e quello italiano.
Jin Luxian esprimeva sentimenti sempre più diffusi nella comunità cattolica cinese. Era solo la punta di un iceberg. Un clero che celebrava nelle chiese riaperte dal regime e accettava di iscriversi all’Associazione patriottica ma, di fatto, si sentiva cattolico al cento per cento e pregava con tutto il cuore per il Papa; nella speranza di poter vedere un giorno la fine della frattura tra “patriottici” e “clandestini” e fra Roma e Pechino. I più autorevoli China-Watcher confermavano la diffusione di queste posizioni nel clero e nella vasta maggioranza dei fedeli cinesi. Nessuno scisma, solo una distanza imposta dal potere politico. E molti lavoravano per superarla.
Nel 1986 andai a Bruxelles, inviato da 30Giorni, per incontrare padre Jerome Heyndrickx, missionario di Scheut: era stato il primo prete cattolico invitato a tenere una lezione sul Concilio (e sul primato petrino) nel seminario di Shanghai. Rivelò che un crescente numero di vescovi “patriottici” desiderava essere in piena comunione con il Santo Padre e stava cercando privatamente un contatto con il Vaticano per “sanare” la propria “illegittimità” canonica. Una nostra fonte nella Segreteria di stato vaticana mi confermò successivamente che alcune situazioni, con il consenso del Papa, erano già state regolarizzate. Il Vaticano non intendeva perseguire una "sanatoria" generale ma esaminava i casi uno per uno, valutando sia la sincerità delle intenzioni sia i comportamenti concreti. D'altra parte il vecchio cardinale Agostino Casaroli, segretario di stato al tempo di Wojtyla, l'aveva detto già nel 1981: "ciò che oggi è illegittimo domani può essere legittimato". Il regime sapeva, naturalmente, di questi contatti ma per tacito accordo si preferiva non pubblicizzare la cosa. Gioco di specchi tutto cinese.
Nella stessa intervista padre Jerome prevedeva che l’evoluzione in corso nelle relazioni tra Cina e Vaticano potesse sfociare un giorno in una specie di “concordato”: un’intesa ufficiale per regolare la materia sensibile delle nomine dei vescovi. Occorreva trovare una formula di compromesso accettabile dalle due parti. Compromesso, quindi non una soluzione ideale ma realista: il bene massimo raggiungibile per la Chiesa nel contesto attuale, dove ancora al potere c’è un partito che si richiama (almeno a parole) all’ideologia comunista e che ha ereditato dal passato una enorme sospettosità verso ogni "interferenza straniera". Un contributo importante ad una nuova stagione di dialogo sia all'interno della Chiesa cinese sia nelle relazioni con le autorità civili venne dalla Lettera di Benedetto XVI ai cattolici cinesi nel maggio 2007.
Papa Ratzinger fissava paletti chiari. Roma non potrà mai accettare limitazioni che toccano punti essenziali della dottrina cattolica. La nomina pontificia dei vescovi è uno di questi punti, perchè riguarda il primato dell'apostolo Pietro e la libertà religiosa. Nello stesso tempo Benedetto XVI affermava chiusa per i cattolici l'era della clandestinità e dell'opposzione frontale al regime: "la soluzione dei problemi esistenti - scriveva - non può essere perseguita attraverso un permanente conflitto con le legittime Autorità civili".
L’Intesa profetizzata nel 1986 divenne realtà solo nel settembre 2018, dopo una serie infinita di alti e bassi nei rapporti tra Roma e Pechino. Non si conoscono i dettagli ma è ragionevole supporre che il governo cinese sottoponga al Papa una rosa di candidati all’episcopato per una determinata diocesi vacante e che al Papa sia riconosciuto il diritto di esprimere la propria preferenza nella scelta dei nomi. L’intesa, pur con qualche fatica, sta funzionando. Definita “provvisoria” da entrambi le parti è stata rinnovata ogni anno e si prevede che lo sarà anche per i prossimi dodici mesi.
Oggi in Cina non ci sono più vescovi illegittimi, tutti sono in comunione col Papa. La validità della successione apostolica è garantita. Non sono cose da poco. Anzi sono cose essenziali: l’intelaiatura dottrinale della struttura della gerarchia cattolica. Se uno pensa agli anni di Mao ma pure alle prime mosse dell’Associazione patriottica, l’Intesa odierna rappresenta oggettivamente un passo in avanti significativo. Nelle chiese cinesi si amministrano i sacramenti, si fa il catechismo, si predica il Vangelo, si prega per il Papa; persone si convertono a Cristo. Non è facile ascoltare da preti o laici critiche al regime, certo: la Cina è retta da un governo autoritario, la libertà di espressione è gravemente limitata. Ma accidenti, negare la strada fatta è negare la realtà, è non amare davvero il cammino concreto della Chiesa cattolica in Cina.
Al convegno vaticano sul Concilio di Shanghai era presente Jerome Heyndrickx, 90 anni e una lucidità sorprendente, l’aula gli ha rivolto un applauso cordiale. È stato emozionante per me riabbracciarlo. Era presente anche l’attuale vescovo di Shanghai, Giuseppe Shen Bin, 55 anni. È la prima volta che un vescovo cinese di Shanghai ottiene il permesso di recarsi a Roma su invito della Santa Sede. Non ha potuto incontrare il Papa: evidentemente non c'era il placet politico di Pechino. Ma la sua stessa presenza a Roma è stato un altro piccolo passo in avanti nelle relazioni tra il Vaticano e la Repubblica popolare cinese. "We pray for you", gli ho potuto sussurrare, alla fine del convegno.
La sua nomina, lo scorso anno, aveva mostrato tutte le fatiche di cui parlavamo prima e che accompagnano ancora l’attuazione pratica dell’Intesa. In precedenza Shen Bin era stato scelto, insieme, dal Papa e dal governo, come vescovo di Haimen. Poi con decisione unilaterale il 4 aprile 2023 il governo ne annunciò il trasferimento a Shanghai. Sembrò uno strappo che rimetteva in discussione l’accordo, ma i buoni uffici del Segretario di stato vaticano, il cardinale Pietro Parolin, riuscirono a ricucire l’Intesa e il Papa potette approvarne la nomina a Shanghai il successivo 15 luglio. Acqua passata, a quanto pare. A Roma il volto felice del vescovo cinese ha detto più delle parole ufficiali pronunciate al convegno. Un discorso politicamente molto allineato ma Shen Bin ha pure messo in chiaro che nessuno in Cina ha intenzione di mettere le mani sui contenuti essenziali della dottrina cattolica, ribadendo la consapevolezza di essere parte dell’unica Chiesa cattolica, universale. La lunga marcia dei cattolici cinesi continua, tra fedeltà e tradimento, dilemmi di coscienza e scelte difficili, peccato e santità. Tribolata e insieme gioiosa. E come sempre nella storia del cristianesimo la gioia è uno dei segni più sicuri che la grazia di Dio non manca di accompagnare questo cammino.
Grazie Lucio, hai ragione: conoscere la storia è importante per capire il presente in modo corretto e tentare di interpretare il futuro per evitare errori. Purtroppo noi Italiani, la storia, non la studiamo e soprattutto non la amiamo come dovremmo. E grazie per la tua sintesi, molto interessante.
Grazie Lucio, una sintesi perfetta che illustra in modo chiaro origini, ragioni, tempistiche, modalità e impegno in un percorso che troppi falsificano o mistificano.